venerdì 19 agosto 2011

•Recensione: ITALO SVEVO - La Coscienza di Zeno

L'incoscienza di Zeno Cosini

«Già credo che in qualunque punto dell'universo ci si stabilisca si finisce coll'inquinarsi.  
Bisogna muoversi. La vita ha dei veleni, ma poi anche degli altri veleni che servono di contravveleni.
Solo correndo si può sottrarsi ai primi e giovarsi degli altri.»

Il primo decennio del XX secolo giocò un ruolo fondamentale nella vita di Aron Hector Schmitz, oggi più comunemente conosciuto con lo pseudonimo di Italo Svevo.
Alla vigilia della Grande Guerra, oltre al debutto nel mondo industriale, si verificò un altro evento capitale che avrebbe determinato inequivocabilmente la successiva formazione intellettuale e professionale dello scrittore triestino: Svevo conobbe James Joyce. Questi, giovane scrittore esule dall'Irlanda e professore alla Berlitz School di Trieste, tenne per Svevo diverse lezioni d'inglese e ne divenne intimo amico, inaugurando così un rapporto fervido di scambi intellettuali e destinato a durare negli anni a venire.
Joyce sottopose all'attenta analisi dell'amico le proprie poesie e i racconti di Gente di Dublino, mentre Svevo gli chiese a sua volta un parere sui romanzi pubblicati fino ad allora, ottenendone lusinghe e incoraggiamenti a non abbandonare l'attività letteraria.

Ulteriore motivo di condivisione e sostegno fra i due intellettuali si presentò alla fine della guerra, nel 1919, quando Italo Svevo, ormai sollevato dalla propria attività commerciale -la sua fabbrica di vernici venne requisita per ordine delle autorità austriache-, pose mano al suo terzo romanzo, La Coscienza di Zeno. Pubblicato nel 1923 l'opera non riuscì tuttavia a riscuotere alcuna risonanza fra i lettori italiani, motivo per cui un esasperato Svevo mandò il proprio scritto a Parigi, per ricavarne un appoggio dall’amico Joyce. Questi ne riconobbe immediatamente lo straordinario valore e adoperò tutti i propri mezzi per portarlo all'attenzione degli intellettuali francesi; fu così che si concretizzò il debutto internazionale di Svevo, destinato a conquistare larga fama in Francia e poi in tutta Europa, ma senza riuscire, nonostante tutto, a scalfire l'aura di diffidenza e di disinteresse formatasi intorno a lui in patria.

Questa indifferenza tutta italiana non era certo una novità per Italo Svevo: anche le precedenti pubblicazioni erano state marcate a fuoco dall'insuccesso più totale.
La prima, Una Vita, fu scritta in una fase arida e opprimente dell'esistenza dell'autore, nella quale Svevo era gravato dal peso di un mortificante lavoro impiegatizio, a cui era costretto a causa delle ristrettezze economiche in cui la propria famiglia versava in seguito a un investimento industriale sbagliato da parte del padre. La pubblicazione passerà sostanzialmente inosservata.
La seconda opera, Senilità, venne alla luce accompagnata da uno stato d'animo totalmente diverso: Svevo aveva sposato Livia Veneziani, cugina conosciuta al capezzale della madre, e il matrimonio aveva segnato una svolta fondamentale nella sua vita.

L'«inetto» Svevo, macerato da infinite insicurezze, trovava finalmente un terreno fertile su cui fondare le proprie radici, raggiungendo così il tanto agognato status di pater familias, punto di riferimento per il proprio focolare e dominatore del mondo domestico. La famiglia Veneziani, inoltre, era ottimamente inserita nel mercato internazionale, grazie a una fabbrica di vernici antiruggine per navi, e fu ben felice di accogliere nella propria ditta il nuovo genero.
Svevo si trovò così, improvvisamente, proiettato nel mondo dell'alta borghesia e da intellettuale si tramutò in dirigente d'industria, un uomo d'affari perfettamente a suo agio nel solido mondo del commercio, dove ciò che veramente contava erano il business e il profitto. Progressivamente Svevo abbandonò l'attività letteraria, iniziandola addirittura a guardare come qualche cosa di insidioso, malsano e sospetto, che poteva irrimediabilmente compromettere la sua nuova vita così produttiva; a tale decisione contribuì, senza alcun dubbio, il tremendo insuccesso di Senilità, caduto nel dimenticatoio subito dopo la pubblicazione, ancor più rapidamente che Una Vita. Il "Caso Svevo" scoppierà solo nel 1925 e lui, l'autore, colui che successivamente verrà innalzato nella rosa dei più autorevoli rappresentati del Novecento italiano, sarà costretto ad attendere quel momento per ben trent'anni.
Ma cosa aveva determinato la disfatta degli anni precedenti?

La fisionomia letteraria di Italo Svevo apparve fin dal principio ben diversa da quella della maggioranza degli scrittori a lui contemporanei. Come primo elemento discriminante vi erano i natali: Svevo, pur non essendo religioso, era di origini israelitiche e le radici ebraiche ebbero una notevole influenza sulla sua attitudine culturale complessiva; alcuni critici sostengono che l’ossessione di Svevo nel votare i protagonisti delle proprie opere all’inettitudine più incondizionata, fosse in realtà il risultato della concezione dell’autore stesso riguardo alla condizione dell’uomo ebreo nella civiltà europea dell’epoca.
Non vanno inoltre trascurate le caratteristiche peculiari dell’ambiente in cui Svevo arriverà a formarsi; Trieste, allora territorio dell’Impero Asburgico, era una città di confine, centro della cultura mitteleuropea, nella quale arriveranno a convergere i nuclei di tre civiltà completamente differenti: quella italiana, quella tedesca e quella slava. Ciò permise all’autore de La Coscienza di Zeno di fare propria una prospettiva intellettuale molto più ampia rispetto a tanti altri scrittori italiani e di presentarsi con uno pseudonimo volto a sottolineare la propria devozione sia alla cultura italiana (Italo) che a quella tedesca (Svevo).

Trieste, oltre ad essere un crogiuolo di popoli e identità, era anche una città prettamente commerciale ed era proprio alla borghesia imprenditoriale che Svevo apparteneva. Ben lontana era la figura tradizionale del letterato italiano, integro e schietto, la cui attività dominante era unicamente la scrittura, che gli consentiva di non occuparsi di nient’altro o quasi; la formazione di Svevo, innanzitutto, non fu rigorosamente umanistica, ma commerciale, e la propria cultura letteraria e filosofica fu determinata da un sentimento puramente autodidatta, caratteristica che condizionò anche la successiva vita professionale. Italo Svevo fu prima impiegato di banca e poi dirigente d’industria, mentre la letteratura non rappresentò per lui altro che un’attività collaterale, esercitata in parallelo alle incombenze quotidiane. Tutto ciò rende Svevo uno scrittore estremamente atipico, soprattutto per la sua epoca, fattore determinante per ciò che andranno a costituire e a rappresentare le sue opere.

La Coscienza di Zeno apparve sulla scena editoriale italiana venticinque anni dopo Senilità. Quel quarto di secolo trascorso era stato cruciale non solo nell’evoluzione interiore e letteraria di Italo Svevo, ma aveva portato con sé trasformazioni radicali anche nell’assetto europeo, nella concezione del mondo e nei movimenti culturali. In quei venticinque anni sull’Europa si era abbattuto il cataclisma della Prima Guerra Mondiale, ovvero la chiusura di un’epoca e l’esplosione di nuova era, fatta di avanguardie artistiche e letterarie, tramite le quali iniziavano ad affacciarsi nuove filosofie e teorie, fra cui quella della relatività e la psicanalisi. Questo è il fertile humus culturale dal quale scaturisce La Coscienza di Zeno, pregno di tutti gli elementi di un’epoca, fondato su soluzioni innovative e quasi mai sperimentate prima.

L’impianto narrativo, innanzitutto: Svevo abbandona il tipico modulo ottocentesco della terza persona, del romanzo narrato da una voce esterna e anonima, per addentrarsi nei meandri dell’io narrante e della confessione autobiografica. La “Coscienza” del titolo, infatti, non è altro che un memoriale, quello di Zeno Cosini che scrive su invito del proprio psicanalista, il fantomatico Dottor S. (ritratto di Sigmund Freud o alter ego di Svevo stesso), a scopo terapeutico e per agevolare la cura vera e propria. L’autore costruisce un espediente narrativo, immaginando che sia il Dottor S. stesso a pubblicare il manoscritto del signor Cosini, come vendetta nei confronti del paziente per essersi sottratto alla cura e per aver frodato il medico del frutto dell’analisi. Zeno, infatti, come spiegherà in un breve diario allegato al termine dello scritto, in seguito ai notevoli successi commerciali da lui ottenuti nel corso della guerra, si riterrà completamente guarito dalla “malattia” che lo aveva portato ad avvicinarsi alla psicanalisi.

La ricostruzione del passato di Zeno si articolerà in sei temi fondamentali, a ciascuno dei quali sarà dedicata una sezione del memoriale, talvolta molto ampia, in quanto ogni segmento arriverà ad abbracciare un’estesa fase della vita del protagonista. Dopo una rancorosa prefazione da parte del Dottor S. stesso e un preambolo in cui Zeno illustrerà i propri inutili tentativi di risalire con la memoria al tempo dell’infanzia, gli argomenti dei capitoli successivi tratteranno la dipendenza dal fumo e gli esperimenti per liberarsene, la tragica morte del padre, la genesi del proprio matrimonio, il rapporto con la moglie Augusta e con l’amante, la giovane e bella Carla ed, infine, la storia della devastante associazione commerciale con il cognato Guido Speier; al termine di tutto, un diario di poche pagine, nel quale Zeno sfogherà il proprio rancore verso lo psicanalista e documenterà i momenti salienti della propria presunta guarigione.

La narrazione di eventi di tale portata, tuttavia, sarà tutt’altro che lineare: la voce di Zeno guiderà il lettore avanti e indietro nel tempo, in accordo con gli sforzi da lui tentati per ricostruire il proprio passato; eventi contemporanei potranno essere così distribuiti in più capitoli successivi e vi saranno ampi sbalzi temporali fra un pagina e l’altra. In questo modo anche l’uso del tempo si alienerà totalmente dalla tradizione ottocentesca, dove gli eventi si presentavano unicamente in ordine cronologico, e darà origine a quello che gli inglesi successivamente chiameranno “stream of consciousness, il flusso di coscienza, che diverrà il principale veicolo di successo per scrittori del calibro di James Joyce, Virginia Woolf e Jack Kerouac.
Il tempo del vissuto, ovvero il passato, si intreccerà intimamente con il tempo del racconto, il presente, nel quale uno Zeno ormai anziano cercherà di raccogliere le fila della propria memoria.

Attraverso il suo “monologo” il protagonista ricostruirà così innumerevoli aspetti della sua vita passata, componendo ritratti di personaggi da lui conosciuti e commentando i vari accadimenti che lo vedranno partecipare sia in qualità di oggetto che di soggetto. Tuttavia non è al vero e spontaneo germinare dei pensieri a cui il lettore assiste, ma al suo rimaneggiamento: Zeno riordinerà le proprie reminiscenze secondo la loro pertinenza nei confronti dell’argomento trattato, e le metterà per iscritto, fattore altamente discriminante; mettere parole su carta presuppone una rielaborazione logica e perciò non sarà l’io più profondo ad emergere. Zeno, infatti, manipolerà le vicende a suo piacimento, erigendo barriere e censure e distorcendo i punti di vista secondo i suoi fini.

L’«inetto» e nevrotico Zeno è chiaramente un narratore inattendibile. Il primo a denunciarlo è il Dottor S. stesso, nella prefazione: «Sembrava tanto curioso di sé stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch’egli ha qui accumulate!». L’intero manoscritto si tramuta così in una colossale operazione di autogiustificazione, volta a dimostrare l’innocente ruolo di Zeno in tutte le situazioni narrate, dal rapporto con il padre a quello con la moglie e l’amante, fino ad arrivare all’amicizia-rivalità con Guido Speier; in realtà ciò che Zeno tenta in tutti i modi di celare, emerge prepotentemente da ogni singola pagina: non vi è nulla di ingenuo o onesto, gli impulsi reali del protagonista sono regolarmente ostili e aggressivi, a volte addirittura omicidi. Zeno stesso arriverà ad auto-ingannarsi, mentendo sistematicamente: la negatività dei suoi impulsi profondi genereranno in lui tormento e senso di colpa, per cui sarà l’inconscio stesso ad avviare un’operazione di auto-assoluzione.

I momenti cruciali della vita di Zeno arriveranno così ad essere governati da inclinazioni subcoscienti, le stesse che lo porteranno a iniziare a fumare di nascosto i sigari del padre e a scegliere come moglie Augusta, nell’attimo immediatamente successivo al rifiuto delle di lei sorelle, diniego sprezzante da parte della bella Ada e giustificabile per la più giovane Alberta. La personalità di Zeno Cosini si rivelerà, quindi, un intreccio indistricabile di motivazioni oscure e di ambiguità senza speranza di risoluzione, spesso totalmente opposte a quelle dichiarate consapevolmente.

Fra gli snodi fondamentali vi sarà il rapporto con il padre, paradossalmente l’origine stessa dell’«inettitudine» del protagonista: Zeno è tale appunto perché non ha alcuna speranza di coincidere o quantomeno avvicinarsi all’immagine paterna, solida e virile, questo a causa sia di ragioni individuali che storiche, prima fra tutte la crisi che l’individuo borghese, a inizio ‘900, si ritroverà a vivere.
Zeno ha un assoluto e imperante bisogno di integrarsi nella società benestante a cui appartiene e pertanto di non sentirsi più “malato” ma “normale”, status raggiungibile solo a patto di arrivare ad incarnare la figura del buon padre di famiglia e dell’affidabile uomo d’affari.
Sarà proprio questa disperata ricerca dell’ordine più banale a portare Zeno a sposare la mediocre Augusta e, al contempo, a proclamarne non solo l’amore, ma anche la più fulgida ammirazione per la sua «perfetta salute». Augusta si rivelerà un’impeccabile sostituta della figura materna, veicolo di benessere stillante la sicurezza e la dolcezza di cui Zeno sovente avrà necessità.

Infine, come in ogni romanzo di Svevo, l’«inetto» si ritroverà ad affrontare la figura del rivale, incarnata nel cognato Guido Speier, la sua esatta antitesi. Guido verrà descritto come colto e affascinante, sicuro di sé stesso, magnifico suonatore di violino (al contrario di Zeno, in grado unicamente di strimpellare melodie terribili) e, fatto ancor più importante, tombeur de femmes; Guido, infatti, riuscirà a conquistare e sposare la bella Ada, sorella di Augusta e primo sogno e desiderio dell’«inetto» rivale. Zeno, inizialmente, manifesterà un’ostilità scoperta nei confronti di Guido e arriverà addirittura a soffocare l’impulso di ucciderlo, trattenendosi dal spingerlo giù da un muretto durante una loro passeggiata notturna.
Successivamente, i sensi di colpa per questi istinti a stento repressi, inaccettabili per la sua coscienza, lo porteranno a seppellire i suoi veri sentimenti sotto una maschera di ostentazione, inscenando un patetico e improbabile affetto fraterno. Anche a distanza di molti anni, al tempo di redigere il suo memoriale, l’anziano Zeno non sarà ancora disposto ad ammettere il suo odio e continuerà a protestare di aver amato Guido Speier più di un fratello.

Eppure apparirà fin troppo evidente, dalle parole del protagonista stesso, come, nel momento in cui Guido si ritroverà a precipitare in caduta libera verso la rovina più totale, Zeno sarà sì al suo fianco, ma unicamente come spettatore impassibile del suo tragico fallimento. Dopo il suicidio dello Speier, l’inconscio dell’«inetto» arriverà a convincerlo di essere stato un “compagno” magnanimo e affettuoso e proprio nella dedizione ossessiva che Zeno manifesterà nel voler onorare la memoria dell’amico, si evidenzierà tutto il suo odio: il postumo salvataggio del patrimonio di Guido decreterà il vero trionfo di Zeno, rivelando tutta la fragilità di un nemico tutt’altro che onnipotente, pietosa vittima dei suoi stessi errori. L’episodio del funerale, ovvero quando Zeno narrerà di aver preso parte al corteo funebre sbagliato, ne sottolineerà l’ostilità latente, ne rivelerà gli impulsi più profondi e l’euforia che pervaderà il protagonista, nell’attimo successivo alla realizzazione del madornale errore, dimostrerà come l’«inetto» vittorioso avverta tutta la propria forza e la propria “sanità” nei confronti di un antagonista ormai incatenato all’ineluttabilità della morte.

Tuttavia, La Coscienza di Zeno non arriverà a costituire soltanto una spietata operazione di smascheramento, manifesto di falsa moralità e fulgida testimonianza di autoinganno; il fattore più illuminante e ammirevole dell’intera opera di Svevo sarà costituito dal mutamento di prospettive, che porteranno Zeno stesso ad essere non solo “oggetto” di critica, ma anche “soggetto”. L’«inettitudine» del protagonista si rivelerà quindi un ottimo pretesto per osservare con tutta comodità la presunta “normalità” del prossimo, in particolare quella dei membri della classe borghese in cui Zeno vorrebbe identificarsi; la “malattia” del protagonista fungerà da strumento straniante, ingegnoso dispositivo atto a portare alla luce l’inconsistente “sanità” degli altri che, ad una visione superficiale, sembrano vivere perfettamente soddisfatti, senza mai vacillare nella solidità delle proprie certezze o dei propri principi.

In questo modo il virile padre di Zeno si trasmuterà in un essere debole e indifeso e il ritratto che ne verrà dipinto sarà quanto mai cattivo e corrosivo. Questi, riluttante persino ad accettare che la terra sia in movimento, dimostrerà tutta la chiusura tipica dei “normali”, cristallizzati nelle proprie convinzioni e gerarchie, in realtà gli autentici veleni che arrivano a consumarli; e così arriverà a realizzarsi il paradosso, ovvero che saranno i “sani” ad assumere il ruolo di veri “malati”.
Allo stessa maniera la soave bontà di Augusta, a proprio agio solo all’interno del “nido” familiare e sorretta da una cieca fiducia nelle autorità, vere o presunte, apparirà quale espressione della più biasimevole ottusità, che la renderà incapace di valutare e ragionare in maniera critica, cieca a tal punto da essere perfino impossibilitata ad accorgersi dei sistematici tradimenti del marito.

Augusta costituirà l’emblema della “normalità” borghese, piantata al centro del mondo e irremovibile dalla sua posizione; al contrario, Zeno si rivelerà come un essere fluido, incostante e inafferrabile, caratteristiche che lo condanneranno per sempre a restar fuori da quel mondo “normale” e a valutare la realtà che lo circonda con diffidenza e malessere.
Lo sguardo di Zeno sconvolgerà le gerarchie e renderà ogni identità una facciata, ogni figura una maschera fumosa e indistinta, incerta e ambigua, convertendo la sanità in follia, la forza in malattia. Nel rivoltare le verità e nello stravolgere i fatti, Zeno sarà al contempo cieco e chiaroveggente, costruirà alibi e rivelerà le menzogne più subdole: mistificando la realtà offrirà la giusta chiave per far venire a galla la verità di ciò che lo circonda.

Davanti a una realtà deformata e deviata a tal punto, non vi è neppure una voce, un narratore onnisciente che riporti l’ordine, che giudichi gli avvenimenti in base a valori determinati e ineluttabili. In questo folle caos si continuerà ad ascoltare solo la coscienza di Zeno, che procederà nella propria narrazione senza alcun punto di riferimento: starà unicamente al lettore stabilire se ciò che è scritto possa essere identificato come «verità» o «bugia» o, molto più probabilmente, tutt’e due le cose insieme.

domenica 7 agosto 2011

•Recensione: ERICH MARIA REMARQUE - Niente di nuovo sul Fronte Occidentale

Singing "Amen I, I'm alive"

«Questo libro non vuol essere
nè un atto d'accusa nè una confessione.
Esso non è che il tentativo di raffigurare
una generazione la quale -anche se sfuggì alle granate-
venne distrutta dalla guerra.»

Pace a lui. 
Pace al povero soldato che cammina sotto l'immenso cielo,  lungo la via che spietata gli si stende dinanzi.
Pace al povero soldato con gli scarponi grandi e goffi e con i pantaloni larghi e sformati, che sotto le ampie pieghe celano la gracilità di un fisico imberbe.
Pace al povero soldato che troppo presto dimentica, che non è neppure più in grado di essere triste, che non riesce più a commuoversi davanti al vasto cielo notturno.
Se gli deste una carezza, un bacio o uno sguardo benevolo, forse vi guarderebbe stranito, forse non vi capirebbe più; ha ormai il cuore pieno di terra, come le sue scarpe, e ha dimenticato tutto, fuorché la marcia. Sparute sorgono le immagini di tutto ciò ch'egli ha perduto, ma che gli sembrano così lontane, come se non le avesse possedute mai: e fra queste, non sono forse là i suoi vent'anni?

Erich Maria Remarque impiegò unicamente sei settimane per redigere quella che è tutt'ora considerata la più notevole testimonianza della Grande Guerra. Lui stesso visse l'esperienza della trincea, venendo destinato al fronte francese nord-occidentale presso Verdun e fu proprio qui che, nel 1917, visse in prima linea uno dei più terribili combattimenti della Prima Guerra Mondiale, la Battaglia delle Fiandre. La brutalità della guerra segnerà profondamente l'esistenza del giovane Remarque, all'epoca appena diciannovenne, e al contempo determinerà la sua vocazione letteraria: saranno proprio le ferite interiori causategli dalle atrocità belliche che lo spingeranno a scrivere.

Il romanzo-diario Niente di nuovo sul Fronte Occidentale ricostruisce la cronistoria delle battaglie sul fronte francesce e, fin dalla premessa, scritta nel tono di un aforisma, sottolinea come anche i sopravvissuti alla guerra, nonostante conservassero una parvenza di vita, ne fossero usciti terribilmente distrutti e lacerati, irrimediabilmente incrinati nell'animo.

Tutto prende avvio da un professore di scuola, Kantorek, e dalla sua propaganda incessante, da lui condotta così alacremente tanto da portare l'intera sua classe -fra cui l'io narrante Paul Bäumer- ad arruolarsi nelle milizie tedesche. L'insistenza di Kantorek arriverà a persuadere perfino il giovane Josef Behm, un ragazzotto grasso e tranquillo, uno dei pochi che ebbe, almeno inizialmente, la volontà di esercitare una strenua resistenza all'arruolamento, ma che alla fine non fu in grado di tirarsene fuori; era infatti impensabile disertare in un'epoca in cui perfino i genitori avevano la parola "vigliacco" a portata di manoLa maggior parte della gente non aveva la più pallida idea di ciò che stava per accadere, se non i poveri, paradossalmente gli unici ragionevoli, i semplici, che tuttavia stimarono immediatamente la guerra come una disgrazia, mentre i borghesi erano fuori di sé dalla gioia.
Il Fato volle che fu proprio il giovane Josef Behm uno dei primi a cadere, in maniera atroce: colpito agli occhi durante un assalto e lasciato per morto, tentò di trascinarsi a carponi verso la propria trincea, ma venne abbattuto a fucilate prima che uno solo dei suoi compagni potesse avvicinarsi.

Occorre far carico al professor Kantorek di questa inutile e tragica morte? In realtà, in Germania e non solo, di Kantorek ve n'erano a migliaia e disgraziatamente erano tutti convinti di agire per il meglio, irretendo la ragione e improntando la gloria. E in questo sta il loro fallimento e la rovina di una generazione. Come maestri di vita, i professori dovevano essere per i diciottenni chiamati alle armi delle guide indiscusse, ciceroni dell'età virile, con il compito di introdurre ogni giovane anima, anche la più acerba, al mondo del lavoro, al senso civico, alla cultura, al progresso, in poche parole all'avvenire. Ma la morte di Josef Behm madò in frantumi qualsiasi convinzione; il primo fuoco tambureggiante sottolineò tutti gli errori commessi e la prima granata disintegrò la concezione del mondo che qualsiasi professore avesse mai potuto insegnare ai suoi allievi.
Mentre i Kantorek continuavano a scrivere e a parlare, gli ospedali rigurgitavano feriti e moribondi; mentre si continuava a esaltare la grandezza dello Stato e l'importanza di servirlo, il terrore della morte serpeggiava negli animi di giovani e vecchi. Nonostante quei fiduciosi e imberbi allievi continuassero ad amare la propria patria e ad avanzare con coraggio ad ogni chiamata, erano ormai in grado di distinguere la verità e di guardarla in faccia. Erano improvvisamente soli e da soli dovevano sbrigarsela, costretti a vivere i propri vent'anni in trincea.

Così giovani non avevano neppure progetti determinati per l'avvenire, niente che potesse riguardare carriera o famiglia; in compenso, erano saturi delle idee indistinte dell'adolescenza, che ammantavano la vita e anche la guerra di un carattere irrealistico e dolcemente romantico.
Le dieci settimane di caserma li trasformarono più profondamente di quello che dieci anni di scuola avrebbero potuto fare. Presto ognuno dovette imparare come un paio di stivali nuovi o un bottone lucido fossero più importanti che non la matematica e come i declami dei propri superiori fossero più perentori di qualsiasi aforisma di  Schopenhauer. Prima furono colti da un genuino stupore, che lasciò facilmente il posto all'esasperazione e poi alla più passiva indifferenza, quando ormai ciascuno si rese conto che, in tempo di guerra, ciò che conta davvero non è il pensiero o lo spirito, ma l'istinto e il sistema, e che non vi era più senso di essere liberi se non si era in grado di obbedire allo "scattare".
L'entusiasmo e la buona volontà instillati in questi giovani animi dal professor Kantorek al tempo di arruolarsi, presto si estinse: patria era in  realtà rinuncia della propria personalità, guerra era unicamente sinonimo di distruzione.
«Saluto, attenti, passo di parata, presentat'arm, fianco dest', fianco sinist', battere i tacchi, cicchetti e mille piccole torture. Ci eravamo figurati diversamente il nostro compito; sembrava che ci si preparasse all'eroismo come cavalli da circo; ma finimmo coll'abituarci.»

Con la più raffinata educazione di caserma, anime ancora candide urlarono di rabbia e i novelli cadetti impararono ad essere spietati, vendicativi, duri e diffidenti, le poche qualità necessarie per andare in guerra. Senza un allenamento del genere, nessun ragazzo poteva sperare di sopravvivere o di conservare la propria sanità mentale: era il modo più efficace di prepararsi a ciò che li attendeva.
Di pari passo, tuttavia, iniziò a svilupparsi un atavico senso di solidarietà, che venne ancor più elevato dal fronte, originando l'unico sublime prodotto di una guerra, il cameratismo, l'unico strumento in grado di strappare un'anima dall'abisso del più disperato abbandono. E così all'homo homini lupus della trincea si contrappose, affiancandovisi, l'animale sociale di aristotelica memoria, sublimando nei singoli individui gli estremi dell'umana natura.

D'altronde, solo il fronte poteva riuscire a generare qualcosa di simile: la vita ai confini della morte si limita all'indispensabile, ritorna alle radici, mentre tutto il superfluo è cloroformizzato. E' proprio nella primitività che si aggrappa la salvezza: una maggiore evoluzione avrebbe condotto alla pazzia, alla diserzione,  alla morte o, nel migliore dei casi, a un inutile consumo di energia. Il fronte riduceva quei vent'anni all'essenza di un animale appena pensante, impastandone la sensibilità e rendendo la ragione capace di sopportare l'orrore, le membra di sostenere le mutilazioni e gli occhi di guardare attraverso la polvere, il sangue e il gas mefitico.

Sostando in attesa lungo la linea di fuoco, in quelle stesse posizioni ormai occupate troppe volte, i volti di quei vent'anni non appaino nè più pallidi nè più accesi del consueto, nè contratti nè rilassati. Eppure qualcosa si è attivato: la coscienza della guerra ha sviluppato una sorta di contatto elettrico con il soldato, dotandolo della duttilità dei sensi e della pazienza di attendere la propria morte. Vi è come l'impressione che la terra del fronte stesso emani una sorta di fluido benefico volto a mobilitare i nervi fino alle più remote fibre, sconosciute perfino all'organismo. Ed è così che il fante nella terra trova sostegno e rifugio, vi si aggrappa lungamente e violentemente nell'angoscia mortale del fuoco, come farebbe con un amico, un fratello o un'amante. Nel silenzio di una buca scavata da una granata, il soldato soffoca il suo terrore, sperando di essere risucchiato dal fango stesso, per allontanarsi per sempre dallo spasimo dell'orrore e dagli spettri dell'annientamento.
E nonostante tutto, sul fronte si deve continuare a combattere, fare dietro front, ritornare all'attacco al termine di una ritirata, trascinati avanti da qualcosa che ormai non è più volontà; quei giovani ragazzi non sono più uomini, ma automi privi di pensiero e personalità, follemente selvaggi, furibondi e assetati di sangue, bramosi di uccidere quelli che sono i propri nemici mortali, prima di essere sterminati a loro volta.

Eppure se sapessero qualcosa di loro, di coloro che vanno a distruggere, come si chiamano, come vivono, cosa amano e cosa li affligge, probabilmente la furia svanirebbe lasciando il posto a un tremendo turbamento e poi alla compassione. Se si guardassero l'un l'altro negli occhi vedrebbero dietro quei volti apparentemente spietati tutto il dolore della creatura che dietro vi si cela, la tremenda tristezza della vita e la crudeltà umana. Fu unicamente un ordine a rendere l'uomo che si sta depredando della vita un nemico e un altro ordine potrebbe trasformarlo di nuovo, in pochi secondi, in un amico, un alleato. 
Pochi individui, investiti di onnipotenza, firmarono intorno a un tavolo un foglio scritto, una dichiarazione di guerra che per anni divenne lo scopo supremo di milioni di uomini, mutilandoli, condannandoli o assurgendoli ad eroi; uomini come tanti, come tutti noi potremmo conoscere, ma soprattutto ragazzi, spogliati della propria vita e della propria morale.

E' quindi con sgomento che osserviamo Franz Kemmerich morire senza nessuno accanto e lasciare come unica eredità un paio di stivali, oppure il compagno Albert Kropp, raffinato pensatore e fedele amico, che brama il suicidio per una gamba mutilata. E che lacerante strazio seguire passo a passo le riflessioni, gli stupori e i tremori del giovane Paul Bäumer -io narrante e alter ego di Remarque stesso-, nella perenne lotta contro i suoi demoni, dentro una buca, al cospetto dell'uomo che ha ucciso, oppure immerso nel terrore di dover rimanere solo al mondo, angoscia che lo porterà a trasportare fino a stremarsi il corpo dell'amico Katzinski, senza neppure accorgersi della di lui morte.

Questi sono i vent'anni al tempo di guerra, questa è la generazione di ferro, bloccata in un presente atroce, ma senza il conforto di un passato o la speranza nel futuro. Non vi è neppure la consolazione degli anziani con mogli, figli e professioni già tanto forti che neppure la guerra è in grado di distruggere. Questi poveri ventenni non hanno altro che i proprio genitori, qualcuno una ragazza, praticamente nulla contando che, nella loro età, l'influenza dei genitori è ridotta al minimo mentre la donna non è ancora dominante.
 «All'infuori di questi sentimenti non v'è gran cosa in noi: la nostra vita non andava più in là del nostro entusiasmo e della scuola, e di tutto ciò nulla è rimasto».

Come sembra assurdo tutto quello che nella storia dell'uomo è stato pensato, scritto o realizzato, se qualcosa del genere è ancora possibile! Come appare tutto falso e inconsistente se la genialità umana non è neppure riuscita a impedire che scorrano tali fiumi di sangue, che esistano prigioni di tortura e che milioni di corpi orribilmente lacerati, che a fatica si definirebbe ancora umani, occupino i letti di migliaia di ospedali. E come è possibile che un giovane di soli vent'anni, non conosca altro della vita se non il terrore, la disperazione, la morte e un infinito abisso di sofferenze.

La guerra non concede più di essere giovani con la voglia di assaporare la vita a pieni polmoni o di prendere il mondo d'assalto, ma obbliga a sfuggire addirittura da sè stessi: arruolati a diciott'anni, quando appena si inizia ad amare il mondo, per poi essere costretti a sparargli contro. «La prima granata ci ha colpiti al cuore; esclusi ormai dall'attività, dal lavoro, dal progresso, non crediamo più a nulla. Crediamo alla guerra.»

I più atroci orrori vengano rappresentati quasi casualmente dalla scrittura di Remarque, come elementi qualunque di vita quotidiana; tuttavia, gli occasionali momenti di bellezza si distinguono e risplendono sfolgoranti sul turpe sfondo della battaglia. Man mano che il romanzo procede si assiste a una crescita esponenziale dei protagonisti: si induriscono, diventano spietati e sanguinari, per poi trascinare il lettore di fronte alle più fulgide imprese sia di nobiltà che di tragedia, come solo l'uomo comune in guerra è in grado di compiere.
«"Compagno" dico al morto, ma con pacatezza: "oggi a te, domani a me. Ma se scampo, compagno, voglio combattere contro ciò che ci ha rovinati entrambi: che a te ha tolto la vita...e a me? La vita anche a me. Te lo prometto, compagno. Non dovrà accadere mai più."»