domenica 7 agosto 2011

•Recensione: ERICH MARIA REMARQUE - Niente di nuovo sul Fronte Occidentale

Singing "Amen I, I'm alive"

«Questo libro non vuol essere
nè un atto d'accusa nè una confessione.
Esso non è che il tentativo di raffigurare
una generazione la quale -anche se sfuggì alle granate-
venne distrutta dalla guerra.»

Pace a lui. 
Pace al povero soldato che cammina sotto l'immenso cielo,  lungo la via che spietata gli si stende dinanzi.
Pace al povero soldato con gli scarponi grandi e goffi e con i pantaloni larghi e sformati, che sotto le ampie pieghe celano la gracilità di un fisico imberbe.
Pace al povero soldato che troppo presto dimentica, che non è neppure più in grado di essere triste, che non riesce più a commuoversi davanti al vasto cielo notturno.
Se gli deste una carezza, un bacio o uno sguardo benevolo, forse vi guarderebbe stranito, forse non vi capirebbe più; ha ormai il cuore pieno di terra, come le sue scarpe, e ha dimenticato tutto, fuorché la marcia. Sparute sorgono le immagini di tutto ciò ch'egli ha perduto, ma che gli sembrano così lontane, come se non le avesse possedute mai: e fra queste, non sono forse là i suoi vent'anni?

Erich Maria Remarque impiegò unicamente sei settimane per redigere quella che è tutt'ora considerata la più notevole testimonianza della Grande Guerra. Lui stesso visse l'esperienza della trincea, venendo destinato al fronte francese nord-occidentale presso Verdun e fu proprio qui che, nel 1917, visse in prima linea uno dei più terribili combattimenti della Prima Guerra Mondiale, la Battaglia delle Fiandre. La brutalità della guerra segnerà profondamente l'esistenza del giovane Remarque, all'epoca appena diciannovenne, e al contempo determinerà la sua vocazione letteraria: saranno proprio le ferite interiori causategli dalle atrocità belliche che lo spingeranno a scrivere.

Il romanzo-diario Niente di nuovo sul Fronte Occidentale ricostruisce la cronistoria delle battaglie sul fronte francesce e, fin dalla premessa, scritta nel tono di un aforisma, sottolinea come anche i sopravvissuti alla guerra, nonostante conservassero una parvenza di vita, ne fossero usciti terribilmente distrutti e lacerati, irrimediabilmente incrinati nell'animo.

Tutto prende avvio da un professore di scuola, Kantorek, e dalla sua propaganda incessante, da lui condotta così alacremente tanto da portare l'intera sua classe -fra cui l'io narrante Paul Bäumer- ad arruolarsi nelle milizie tedesche. L'insistenza di Kantorek arriverà a persuadere perfino il giovane Josef Behm, un ragazzotto grasso e tranquillo, uno dei pochi che ebbe, almeno inizialmente, la volontà di esercitare una strenua resistenza all'arruolamento, ma che alla fine non fu in grado di tirarsene fuori; era infatti impensabile disertare in un'epoca in cui perfino i genitori avevano la parola "vigliacco" a portata di manoLa maggior parte della gente non aveva la più pallida idea di ciò che stava per accadere, se non i poveri, paradossalmente gli unici ragionevoli, i semplici, che tuttavia stimarono immediatamente la guerra come una disgrazia, mentre i borghesi erano fuori di sé dalla gioia.
Il Fato volle che fu proprio il giovane Josef Behm uno dei primi a cadere, in maniera atroce: colpito agli occhi durante un assalto e lasciato per morto, tentò di trascinarsi a carponi verso la propria trincea, ma venne abbattuto a fucilate prima che uno solo dei suoi compagni potesse avvicinarsi.

Occorre far carico al professor Kantorek di questa inutile e tragica morte? In realtà, in Germania e non solo, di Kantorek ve n'erano a migliaia e disgraziatamente erano tutti convinti di agire per il meglio, irretendo la ragione e improntando la gloria. E in questo sta il loro fallimento e la rovina di una generazione. Come maestri di vita, i professori dovevano essere per i diciottenni chiamati alle armi delle guide indiscusse, ciceroni dell'età virile, con il compito di introdurre ogni giovane anima, anche la più acerba, al mondo del lavoro, al senso civico, alla cultura, al progresso, in poche parole all'avvenire. Ma la morte di Josef Behm madò in frantumi qualsiasi convinzione; il primo fuoco tambureggiante sottolineò tutti gli errori commessi e la prima granata disintegrò la concezione del mondo che qualsiasi professore avesse mai potuto insegnare ai suoi allievi.
Mentre i Kantorek continuavano a scrivere e a parlare, gli ospedali rigurgitavano feriti e moribondi; mentre si continuava a esaltare la grandezza dello Stato e l'importanza di servirlo, il terrore della morte serpeggiava negli animi di giovani e vecchi. Nonostante quei fiduciosi e imberbi allievi continuassero ad amare la propria patria e ad avanzare con coraggio ad ogni chiamata, erano ormai in grado di distinguere la verità e di guardarla in faccia. Erano improvvisamente soli e da soli dovevano sbrigarsela, costretti a vivere i propri vent'anni in trincea.

Così giovani non avevano neppure progetti determinati per l'avvenire, niente che potesse riguardare carriera o famiglia; in compenso, erano saturi delle idee indistinte dell'adolescenza, che ammantavano la vita e anche la guerra di un carattere irrealistico e dolcemente romantico.
Le dieci settimane di caserma li trasformarono più profondamente di quello che dieci anni di scuola avrebbero potuto fare. Presto ognuno dovette imparare come un paio di stivali nuovi o un bottone lucido fossero più importanti che non la matematica e come i declami dei propri superiori fossero più perentori di qualsiasi aforisma di  Schopenhauer. Prima furono colti da un genuino stupore, che lasciò facilmente il posto all'esasperazione e poi alla più passiva indifferenza, quando ormai ciascuno si rese conto che, in tempo di guerra, ciò che conta davvero non è il pensiero o lo spirito, ma l'istinto e il sistema, e che non vi era più senso di essere liberi se non si era in grado di obbedire allo "scattare".
L'entusiasmo e la buona volontà instillati in questi giovani animi dal professor Kantorek al tempo di arruolarsi, presto si estinse: patria era in  realtà rinuncia della propria personalità, guerra era unicamente sinonimo di distruzione.
«Saluto, attenti, passo di parata, presentat'arm, fianco dest', fianco sinist', battere i tacchi, cicchetti e mille piccole torture. Ci eravamo figurati diversamente il nostro compito; sembrava che ci si preparasse all'eroismo come cavalli da circo; ma finimmo coll'abituarci.»

Con la più raffinata educazione di caserma, anime ancora candide urlarono di rabbia e i novelli cadetti impararono ad essere spietati, vendicativi, duri e diffidenti, le poche qualità necessarie per andare in guerra. Senza un allenamento del genere, nessun ragazzo poteva sperare di sopravvivere o di conservare la propria sanità mentale: era il modo più efficace di prepararsi a ciò che li attendeva.
Di pari passo, tuttavia, iniziò a svilupparsi un atavico senso di solidarietà, che venne ancor più elevato dal fronte, originando l'unico sublime prodotto di una guerra, il cameratismo, l'unico strumento in grado di strappare un'anima dall'abisso del più disperato abbandono. E così all'homo homini lupus della trincea si contrappose, affiancandovisi, l'animale sociale di aristotelica memoria, sublimando nei singoli individui gli estremi dell'umana natura.

D'altronde, solo il fronte poteva riuscire a generare qualcosa di simile: la vita ai confini della morte si limita all'indispensabile, ritorna alle radici, mentre tutto il superfluo è cloroformizzato. E' proprio nella primitività che si aggrappa la salvezza: una maggiore evoluzione avrebbe condotto alla pazzia, alla diserzione,  alla morte o, nel migliore dei casi, a un inutile consumo di energia. Il fronte riduceva quei vent'anni all'essenza di un animale appena pensante, impastandone la sensibilità e rendendo la ragione capace di sopportare l'orrore, le membra di sostenere le mutilazioni e gli occhi di guardare attraverso la polvere, il sangue e il gas mefitico.

Sostando in attesa lungo la linea di fuoco, in quelle stesse posizioni ormai occupate troppe volte, i volti di quei vent'anni non appaino nè più pallidi nè più accesi del consueto, nè contratti nè rilassati. Eppure qualcosa si è attivato: la coscienza della guerra ha sviluppato una sorta di contatto elettrico con il soldato, dotandolo della duttilità dei sensi e della pazienza di attendere la propria morte. Vi è come l'impressione che la terra del fronte stesso emani una sorta di fluido benefico volto a mobilitare i nervi fino alle più remote fibre, sconosciute perfino all'organismo. Ed è così che il fante nella terra trova sostegno e rifugio, vi si aggrappa lungamente e violentemente nell'angoscia mortale del fuoco, come farebbe con un amico, un fratello o un'amante. Nel silenzio di una buca scavata da una granata, il soldato soffoca il suo terrore, sperando di essere risucchiato dal fango stesso, per allontanarsi per sempre dallo spasimo dell'orrore e dagli spettri dell'annientamento.
E nonostante tutto, sul fronte si deve continuare a combattere, fare dietro front, ritornare all'attacco al termine di una ritirata, trascinati avanti da qualcosa che ormai non è più volontà; quei giovani ragazzi non sono più uomini, ma automi privi di pensiero e personalità, follemente selvaggi, furibondi e assetati di sangue, bramosi di uccidere quelli che sono i propri nemici mortali, prima di essere sterminati a loro volta.

Eppure se sapessero qualcosa di loro, di coloro che vanno a distruggere, come si chiamano, come vivono, cosa amano e cosa li affligge, probabilmente la furia svanirebbe lasciando il posto a un tremendo turbamento e poi alla compassione. Se si guardassero l'un l'altro negli occhi vedrebbero dietro quei volti apparentemente spietati tutto il dolore della creatura che dietro vi si cela, la tremenda tristezza della vita e la crudeltà umana. Fu unicamente un ordine a rendere l'uomo che si sta depredando della vita un nemico e un altro ordine potrebbe trasformarlo di nuovo, in pochi secondi, in un amico, un alleato. 
Pochi individui, investiti di onnipotenza, firmarono intorno a un tavolo un foglio scritto, una dichiarazione di guerra che per anni divenne lo scopo supremo di milioni di uomini, mutilandoli, condannandoli o assurgendoli ad eroi; uomini come tanti, come tutti noi potremmo conoscere, ma soprattutto ragazzi, spogliati della propria vita e della propria morale.

E' quindi con sgomento che osserviamo Franz Kemmerich morire senza nessuno accanto e lasciare come unica eredità un paio di stivali, oppure il compagno Albert Kropp, raffinato pensatore e fedele amico, che brama il suicidio per una gamba mutilata. E che lacerante strazio seguire passo a passo le riflessioni, gli stupori e i tremori del giovane Paul Bäumer -io narrante e alter ego di Remarque stesso-, nella perenne lotta contro i suoi demoni, dentro una buca, al cospetto dell'uomo che ha ucciso, oppure immerso nel terrore di dover rimanere solo al mondo, angoscia che lo porterà a trasportare fino a stremarsi il corpo dell'amico Katzinski, senza neppure accorgersi della di lui morte.

Questi sono i vent'anni al tempo di guerra, questa è la generazione di ferro, bloccata in un presente atroce, ma senza il conforto di un passato o la speranza nel futuro. Non vi è neppure la consolazione degli anziani con mogli, figli e professioni già tanto forti che neppure la guerra è in grado di distruggere. Questi poveri ventenni non hanno altro che i proprio genitori, qualcuno una ragazza, praticamente nulla contando che, nella loro età, l'influenza dei genitori è ridotta al minimo mentre la donna non è ancora dominante.
 «All'infuori di questi sentimenti non v'è gran cosa in noi: la nostra vita non andava più in là del nostro entusiasmo e della scuola, e di tutto ciò nulla è rimasto».

Come sembra assurdo tutto quello che nella storia dell'uomo è stato pensato, scritto o realizzato, se qualcosa del genere è ancora possibile! Come appare tutto falso e inconsistente se la genialità umana non è neppure riuscita a impedire che scorrano tali fiumi di sangue, che esistano prigioni di tortura e che milioni di corpi orribilmente lacerati, che a fatica si definirebbe ancora umani, occupino i letti di migliaia di ospedali. E come è possibile che un giovane di soli vent'anni, non conosca altro della vita se non il terrore, la disperazione, la morte e un infinito abisso di sofferenze.

La guerra non concede più di essere giovani con la voglia di assaporare la vita a pieni polmoni o di prendere il mondo d'assalto, ma obbliga a sfuggire addirittura da sè stessi: arruolati a diciott'anni, quando appena si inizia ad amare il mondo, per poi essere costretti a sparargli contro. «La prima granata ci ha colpiti al cuore; esclusi ormai dall'attività, dal lavoro, dal progresso, non crediamo più a nulla. Crediamo alla guerra.»

I più atroci orrori vengano rappresentati quasi casualmente dalla scrittura di Remarque, come elementi qualunque di vita quotidiana; tuttavia, gli occasionali momenti di bellezza si distinguono e risplendono sfolgoranti sul turpe sfondo della battaglia. Man mano che il romanzo procede si assiste a una crescita esponenziale dei protagonisti: si induriscono, diventano spietati e sanguinari, per poi trascinare il lettore di fronte alle più fulgide imprese sia di nobiltà che di tragedia, come solo l'uomo comune in guerra è in grado di compiere.
«"Compagno" dico al morto, ma con pacatezza: "oggi a te, domani a me. Ma se scampo, compagno, voglio combattere contro ciò che ci ha rovinati entrambi: che a te ha tolto la vita...e a me? La vita anche a me. Te lo prometto, compagno. Non dovrà accadere mai più."»

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